Prof. Luigi Lacchè (Macerata) published La Costituzione del Novecento. Percorsi stori e vicissitudini dello Stato di diritto, on the Italian constitution in the 20th century and its historical trajectories.
Indice
pag.
Premessa.
La Costituzione nel Novecento e lo Stato di diritto XI
I
Lo Statuto albertino e la
Costituzione
repubblicana “a confronto”
1. Premessa 1
2. Due
mondi lontani: origini, legittimazione e natura delle costituzioni 3
3. Due
regimi di temporalità 9
4. Sovranità
politica/supremazia normativa della Costituzione 14
5. Flessibilità
vs. rigidità della Costituzione? 17
6. Legalità,
costituzione, diritti 28
II
L’esperienza costituzionale di
Weimar
nel dibattito italiano (1919-1948)
1. Conoscere
la Costituzione di Weimar (anni Venti) 36
2. Il
“fattore” Mortati (anni Trenta) 47
3. La Costituzione di Weimar e il processo costituente
(anni Quaranta) 60
pag.
III
Un
groviglio costituzionale.
Fasi e problemi della costituzione “fascista”
nelle trasformazioni del regime
1. 1922-1924.
Una rivoluzione, anzi no: una restaurazione costituzionale 74
2. 1924-1925:
audacia nel conservare e nell’innovare? 78
3. 1925-1926:
Alfredo Rocco e la trasformazione dello Stato 81
4. 1927-1929:
Il Santo Sepolcro è vuoto. Il «dramma della diarchia» e la costituzionalità
fascista 86
5. Gli
anni Trenta 90
6. Conclusioni: perché non c’è stata una costituzione fascista completa 95
IV
Agli
albori dell’Europa libera e unita: per gli ottant’anni del Manifesto di
Ventotene (1941-2021)
1. Da
prigionieri a costruttori di futuro 103
2. L’effetto Ventotene e l’officina delle
idee 104
3. Il
Manifesto e le cartine di sigaretta 107
4. Per un’Europa libera e unita: i
temi-chiave del Manifesto 109
5. «Oggi
è il momento in cui bisogna saper gettare via vecchi fardelli divenuti
ingombranti, tenersi pronti al nuovo che sopraggiunge» 113
V
Le
metamorfosi del Rule of law
nel Ventesimo secolo
1. Storie
e/del Rule of law 117
2. Rule of law nel Ventesimo secolo: un’eredità complessa e polisemica 119
3. Una svolta: lo Stato di
diritto nel corso degli anni Venti 124
4. Abusare
del Rule of law 128
5. Il Rule of law dopo la seconda guerra mondiale: fase nuova, problemi vecchi? 134
pag.
VI
Le emergenze del diritto. Qualche
riflessione storico-giuridica su quattro paradigmi (extraordinarium, necessità, stato di eccezione,
stato d’emergenza)
1. Premessa:
una “babele” linguistica e concettuale 143
2. L’albero e il rampicante: ordo iuris /extraordinarium nelle esperienze di diritto
comune 146
3. La
«polvere sotto il tappeto» e il pluralismo costituzionale: lo Stato liberale
legale e la necessità 149
4. Le
situazioni e il caso d’eccezione
(1919-1933) 161
5. Stato
di emergenza vs. stato di eccezione 166
Indice dei
nomi 175
Prof. Lacchè has been so kind as to share the introduction of his book with the readers of the ESCLH Blog. Please find the text below:
Premessa.
La
Costituzione nel Novecento
e lo Stato di diritto
Costituzione e Novecento: un binomio indefettibile e al tempo stesso
problematico. Parliamo del lungo Novecento che giunge, a ben vedere, sino a noi
e che è iniziato dalle parti della Prima Guerra Mondiale, tracciando poi le
linee contorte di un secolo costellato da immani tragedie, sfide innumerevoli e
grandi speranze. Sembra un secolo diviso a
metà: nella prima parte troviamo vari tentativi di costruire nel continente
europeo un ordine costituzionale capace di organizzare, a seconda dei contesti,
le nuove società di massa, eterogenee, pluralistiche e conflittuali, destinati, per
buona parte, a soccombere di fronte all’avanzata dei regimi autoritari
e totalitari. La seconda metà invece appare contraddistinta dall’affermazione
progressiva del costituzionalismo democratico, accentuata dopo il crollo dei
regimi post-sovietici. Queste però sono
linee di tendenza e proprio negli anni del secolo XXI abbiamo visto
indebolirsi la spinta ad ampliare i confini della democrazia costituzionale e
dello Stato di diritto. Insomma, per più versi i caratteri storici del binomio
Costituzione e Novecento non sono del tutto alle nostre spalle.
La democrazia costituzionale può essere
vista come un grande albero con numerose e intricate radici, alcune lontane,
altre più vicine. È come se la Costituzione nel Novecento
contenesse e cercasse di ricomporre alcuni
“pezzi” delle precedenti “generazioni” di testi e momenti costituzionali:
ovvero la costituzione settecentesca del potere costituente (We the People,
Nous la Nation) nata dalle grandi rotture rivoluzionarie, quando il
popolo/nazione cominciò a rappresentarsi come unità politica consapevole di
esistere e di avere una originaria capacità di agire; e poi la costituzione
liberale del XIX secolo, in prevalenza monarchica, elitaria, che cercò invece
di depotenziare la dimensione costituente attraverso un’idea di ordine
politico-costituzionale storicamente determinato, sulla scia della
costituzione-mito britannica.
Negli ultimi anni mi è capitato di riflettere
su alcuni dei temi e dei problemi che hanno caratterizzato la vicenda novecentesca
del costituzionalismo. I sei capitoli di questo volume – pur nati da occasioni
diverse – sono uniti da un filo rosso e, in particolare, da due questioni
strettamente collegate che hanno contrassegnato il Novecento: i mutamenti
della forma e dei contenuti della costituzione, le vicissitudini dello Stato di
diritto. Sono questioni che, muovendo dalla dimensione storica, arrivano sino a noi e ci aiutano a
riflettere meglio sulla fase difficile e, forse, “confusa” che stiamo
vivendo.
Nel capitolo I si mettono “a confronto” – cioè
si “misurano” su alcune questioni fondamentali – l’esperienza italiana del
costituzionalismo liberale e dello Statuto fondamentale (concesso nel 1848 da
Carlo Alberto ai sudditi del Regno di Sardegna) e la Costituzione repubblicana entrata in vigore un secolo dopo. Da un lato c’è
la tradizionale declinazione liberale
della costituzione-tempo, fatta di esperienza, prassi, lento
adattamento. La costituzione si costruisce nello scandaglio della storicità, si
rispecchia, nel suo progredire, in forme, equilibri e modi di essere della
società e delle sue principali articolazioni. Prima viene l’ordine
costituzionale dato, la Verfassung direbbero i tedeschi, poi la
costituzione scritta (Konstitution) che ne è una parte, importante, ma
insufficiente da sola a rispecchiare la dimensione materiale dell’assetto
sociale (basti pensare alla costituzione economica del codice civile). Dall’altro
lato, la rivoluzione costituzionale del 1948 – esempio mirabile di Costituzione democratica del secondo Novecento –
pensa il tempo in termini di “futuro” e non più di passato, storicità,
tradizione. Nel capitolo I le “misure” per esaminare sinotticamente i due
grandi blocchi della storia costituzionale italiana sono le coppie sovranità
politica/supremazia normativa della Costituzione; flessibilità/rigidità della
Costituzione; diritti/libertà; legalità/costituzionalità. Tutti temi cruciali.
Ma la Costituzione del Novecento è forte se contiene e veicola un
programma, un indirizzo, se è volontà di futuro capace di indirizzare la
società nata dalle ceneri della dittatura e di ciò che restava dello Stato
liberale. La novità della Costituzione italiana sta proprio in ciò che i
liberali “ottocenteschi” (ma anche una parte dei costituenti democratici)
stentavano a comprendere: la sua «eccedenza progettuale». Essa immagina una
società che sta oltre le condizioni reali
del presente. La costituzione democratica è quindi «una freccia del
futuro». Essa nasce dalla società costituente e dal conflitto “naturale” tra soggetti
concreti e sempre più “compositi” (lavoratori, consumatori, imprenditori, ecc.)
e appresta principii, regole e meccanismi istituzionali che dovrebbero
consentire alla società stessa di progredire.
Negli anni che precedettero e seguirono la prima guerra mondiale sembrò
possibile avviare questa trasformazione. Nel capitolo II si parte dal problema
europeo della “crisi dello Stato liberale”. La «stupenda creazione del diritto», lo Stato nazionale creato nel XIX secolo,
mostrava già ad un osservatore attento come Santi Romano (Lo Stato moderno e
la sua crisi, 1909) le crepe di un edificio costruito per governare un
universo più “semplice”, da un lato lo Stato moderno, sovrano, e dall’altro gli
individui-atomi. Una “forma di Stato” chiamata ora a misurarsi con le sfide del
collettivo: economia industriale, avanzata della tecnica, associazionismo e
sindacalismo.
La guerra mondiale funzionò quindi da straordinario catalizzatore e
accelerò il manifestarsi di fenomeni già visibili. Gli Stati liberali avevano vinto
la guerra, ma per vincere la pace dovevano essere in grado di riformare in
profondità la loro costituzione. Il dilemma era: uscire dalla guerra dal lato
delle libertà e della partecipazione o da quello dell’autoritarismo? Se in
Italia il neonato “Stato dei partiti” identificò nel complesso delle riforme
elettorali e parlamentari del 1919-1920 il presupposto per creare una
democrazia di massa fondata sul pluralismo politico, in Germania la
Costituzione di Weimar offrì, proprio dal 1919, un primo disegno di indubbia
innovazione costituzionale. Weimar – fenomeno per taluni aspetti radicalmente
tedesco – divenne così uno “specchio” per gran parte dell’Europa.
Prima di diventare l’esempio paradigmatico del fallimento dello Stato
nuovo, “sociocentrico” e ad indirizzo labouristico, la Costituzione weimariana
sembrò ad un liberale come Francesco Ruffini una prima concreta risposta ai
pericoli di “sovietizzazione”. Ancora nel 1925 «Il fondamento della
Costituzione repubblicana dell’Impero tedesco è risultato invero quello di uno
Stato democratico, e cioè costituzionale e parlamentare: – vale a dire, di un
vero Stato liberale». Basta leggere l’art. 151 della costituzione tedesca del
1919 per comprendere la novità del linguaggio: «L’ordinamento della vita
economica deve corrispondere alle norme fondamentali della giustizia e tendere
a garantire a tutti un’esistenza degna dell’uomo». È la costituzione
social-democratica a determinare le nuove condizioni di unità politica
attraverso la logica del compromesso e del governo del conflitto. Proprio ciò
che, nel fallimento, verrà additato come il
fattore di delegittimazione di una costituzione considerata “debole”, fonte di
instabilità e di contraddizioni.
A prescindere dall’esito, come detto, la costituzione weimariana divenne
un punto di riferimento per diversi Stati nati o restaurati dopo la guerra, l’emblema
stesso della costituzione sociale che cercava di dare “forma” alla più
importante “rivoluzione” costituzionale del primo Novecento. James Bryce (Modern Democracies,
1921) – dopo la vittoria della “democrazia” sui regimi autocratici e l’entrata
in vigore di alcune nuove costituzioni liberal-democratiche – poteva ancora
nutrire delle speranze circa le potenzialità del regime democratico, del libero
governo e dello stato di diritto. «Vediamo popolazioni arretrate, a cui era
sconosciuta la concezione stessa della libertà politica, chiamate a tentare il
tremendo compito di creare istituzioni di autogoverno. Cina, India e Russia,
nel loro insieme, contengono metà o più della popolazione del globo, quindi il
problema di fornire loro un governo libero è il più grande problema che l’arte
di Stato abbia mai dovuto risolvere». Lord Bryce notava, ma non senza
inquietudini, che «[…] il numero
delle democrazie è raddoppiato nel mondo nello spazio di quindici anni».
Guardare in direzione di Weimar significò confrontarsi con quella complessa
costellazione di temi e di questioni che hanno dato vita al primo significativo
e controverso laboratorio del costituzionalismo democratico del Novecento, nel
contesto della guerra, del crollo dell’Impero guglielmino e della crisi
generale dello Stato monoclasse.
Se lo Stato costituzionale di Weimar poteva
essere visto come un Upgrade dello Stato liberal-democratico in via di
trasformazione, la nozione di “Stato di diritto” – come si può vedere nel cap.
V – non può dirsi univoca. Il Rule of law di Dicey e della tradizione
britannica non è un mero sinonimo del Rechtsstaat tedesco o, ancora, de
l’Etat légal francese o dello Stato di diritto dei liberali italiani.
Ovviamente, ci sono matrici e principi comuni ma la contestualizzazione può
aiutare a comprendere meglio il valore e il significato storico di queste varie
declinazioni. Per Dicey il Rule of law è uno dei pilastri della costituzione
britannica le cui disposizioni «non sono la fonte ma la conseguenza dei diritti
delle persone, così come definiti e fatti valere dai tribunali […] quindi la
costituzione è il risultato della legge ordinaria del paese». Sul Continente è
l’idea della centralità e della supremazia della legge dello Stato – quale ne
sia il fondamento – a restare salda. Da un
lato la cultura del common law decision-making, governato dai giudici
che divennero, nel contesto americano, guardiani della costituzione scritta, grazie
dapprima all’“invenzione” e poi allo sviluppo del
sistema di controllo giurisdizionale del legislativo. Dall’altro la cultura
statocentrica, limitata e sorretta dalla legge, dove la tutela dei diritti e
delle libertà individuali era garantita principalmente dall’apparato interno
del potere legislativo e dello Stato amministrativo. Le teorie (fra tutte
quella di Kelsen) e l’esperienza dell’Alta Corte costituzionale austriaca
cercarono di dare soluzione al problema più antico dello Stato moderno
continentale, ovvero la «posizione» del potere giudiziario all’interno
dell’organizzazione statale.
Il cammino della costituzione democratica e dello Stato di diritto
sembrò interrompersi in una parte rilevante dell’Europa continentale proprio
negli anni di iniziale apertura ai nuovi concetti del costituzionalismo. Questo
processo fu còlto all’inizio del guado. Il caso italiano è emblematico. Il cap.
III analizza il problema del passaggio dallo Stato liberale allo Stato fascista.
La ricerca della costituzione fascista non può arrestarsi al livello
della contraddizione in termini, se non dell’ossimoro. In realtà, il
ventennale e affannoso dibattito sul problema costituzionale del
fascismo generò fasi “costituenti” e un groviglio che denuncia
“confusione” ma anche l’intrecciarsi di questioni e temi tipici del Novecento e non confinabili solo all’interno
delle dinamiche specifiche del regime. In realtà la costituzionalizzazione
autoritaria ha provato ad offrire, senza un vero progetto iniziale e
restando schiacciata dalle sue contraddizioni, “risposte” ad almeno tre
fenomeni centrali e concomitanti del Novecento: la “crisi” della costituzione
liberale segnata, prima, durante e dopo la
guerra mondiale, dall’avanzata delle masse e da tumultuosi processi di
democratizzazione; il rapporto tra il regime politico-costituzionale e i nuovi
fini sociali e collettivi dello Stato legati al lavoro e alla produzione; la
“disgregazione” dell’autorità statuale da difendere e “modernizzare” proprio
attraverso la edificazione di una costituzione autoritaria. In questo
senso la costituzione fascista è al tempo stesso il processo di
costruzione di un edificio unico per struttura e forme e, alla fine, un
tentativo fallito di concepire, nello spazio autoritario, un altro modo
di organizzare i rapporti tra potere, masse e società.
Le vicissitudini dello Stato di diritto tra le
due guerre misero dunque a nudo i limiti intrinseci della «stupenda creazione
del diritto» dei giuristi liberali. I regimi totalitari riuscirono abilmente a
sfruttarne i suoi “lati oscuri” ma anche lo
stesso principio formale, legittimante,
di legalità. I dibattiti sullo Stato
giuridico nell’Italia fascista e sul Rechtsstaat nella
Germania prenazista e nazista mostrano strategie diverse nell’abusare dell’ambiguità
semantica e retorica di quei concetti. Entrambi i riferimenti hanno svolto
funzioni diverse nell’affrontare l’eredità del nucleo comune dello Stato di
diritto: separazione tra Stato e società, individualismo, parlamentarismo,
tutela dei diritti, divisione dei poteri. Per Carl Schmitt lo Stato di diritto
ottocentesco non era più in grado di ricondurre a unità politica il pluralismo
conflittuale dello Stato legislativo (la Repubblica di Weimar ne era, infine,
il paradigma negativo) ed era quindi
necessario fondare lo Stato “totale” (der Totale Staat).
Il Rechtsstaat appariva un concetto politico obsoleto, archiviato come qualcosa del passato. Per Schmitt tutti i
concetti politici, con un significato
polemico, erano legati a una situazione concreta: Rechtsstaat
all’inizio degli anni Trenta aveva ben poco di nobile, una sorta di generico passepartout
evocato per diffamare i suoi presunti “nemici”.
Negli anni Trenta, mentre Schmitt affermava lapidario, dalla
prospettiva politico-sostanziale, che «La Costituzione di Weimar non è più in
vigore», Costantino Mortati rifletteva, come nessun altro in Italia, sulla
dottrina costituzionale weimariana (cap. II). Ciò voleva dire leggere le
questioni contingenti legate al regime fascista alla luce dei grandi temi
legati al nuovo Stato pluriclasse, alla crisi dei regimi liberal-democratici di
massa e alle questioni metodologiche e al lessico concettuale del nuovo diritto pubblico in formazione. Weimar come
fenomeno della crisi o dissoluzione di un ordine basato sulla transizione
dualistica della forma di governo, ma, soprattutto, come “nuova forma del
mondo”, comprensibile – come fece Mortati – nei termini di una rinnovata teoria
della costituzione. Nel fallimento di Weimar c’è una parte di passato ma
anche una porzione non trascurabile di futuro. Weimar si può leggere
enfatizzando “ciò che resta” del Reich e della sua struttura
monarchico-costituzionale o, invece, valorizzando la dimensione
avanguardistica, una sorta di Bauhaus del costituzionalismo
novecentesco. Alcune delle critiche mosse alla costituzione di Weimar – in
particolare sui caratteri genetici: eterogeneità dei soggetti politici
“portatori” e necessario “compromesso” costituente – coglievano gli aspetti
problematici ma non il fatto che ciò annunciava il nuovo costituzionalismo del
Novecento ancorato al problema delle masse, al ruolo dei partiti, all’inevitabile
pluralità/conflitto di principi, valori e interessi “frazionali” e alla
necessità di raggiungere mediazioni e “compromessi” politico-costituzionali.
Nel corso degli anni Trenta si cominciò a
volgere lo sguardo verso nuovI ambiti di riflessione – legati in maniera
intricata alle trasformazioni mondiali del dopoguerra e alle trasformazioni place
specific dettate dal fascismo – cominciando a definire i contorni del
governo d’indirizzo e di partito. Il metodo giuridico venne integrato da
prospettive realistiche, di ascendenza storico-filosofica e sociologica,
ridefinendo il rapporto/confine fra diritto e politica. Nella visione di questa
nouvelle vague – che giocherà un ruolo assai importante nel successivo
processo costituente – si cominciò a ripensare le categorie del diritto
pubblico in grado di leggere in maniera più articolata il problema della crisi
dello “Stato moderno” e soprattutto del rapporto tra società e costituzione.
Come si può cogliere dal cap. IV, questa stessa attitudine fu centrale
presso gruppi di intellettuali impegnati nella resistenza al fascismo e spesso
segnati dall’esilio, dal carcere e dal confino. Alla ricerca di nuove vie, non
avevano certezze granitiche ma erano sicuri del fatto che non sarebbero stati i
concetti politici (e giuridici) della tradizione a poter fronteggiare da soli
le immense sfide che si stavano profilando sul piano nazionale ed europeo. «Nel
tetro inverno 1940-41, – racconta Altiero Spinelli nelle sue memorie – quando
quasi tutta l’Europa continentale era stata soggiogata da Hitler, l’Italia di
Mussolini ansimava al suo seguito, l’URSS stava digerendo il bottino che era
riuscita ad afferrare, gli Stati Uniti erano ancora neutrali e l’Inghilterra
sola resisteva, trasfigurandosi agli occhi di tutti i democratici d’Europa in
loro patria ideale, proposi ad Ernesto Rossi di scrivere insieme un “manifesto
per un’Europa libera e unita”, e di immetterlo nei canali della clandestinità
antifascista sul continente».
Al fondo della riflessione che portò al cd. Manifesto di Ventotene – il
cui titolo originale era Per un’Europa
libera e unita. Progetto d’un manifesto – c’è lo stesso tema che assillava
i giuristi: lo Stato moderno, nazionale, di diritto e la sua crisi. Per
Spinelli, Rossi e il gruppo dei federalisti italiani erano stati i «Leviatani
impazziti» a trascinare di nuovo le nazioni europee in una guerra ancor più
catastrofica. Nel primo capitolo del Manifesto
– La crisi della civiltà moderna
– si analizza il processo degenerativo dello Stato nazionale: da soggetto
affrancatore (garante di libertà, unità, indipendenza, civiltà) a «entità
divina» portatrice di una concezione assoluta della sovranità foriera di
volontà di dominio, di spazi vitali,
di egemonia del più forte. Ma non era neppure sufficiente tornare ad essere
“democratici”. Solo grazie al processo federativo di un’Europa rinnovata si
sarebbe potuto costruire una nuova visione
dell’unità politica e costituzionale.
Ormai a ridosso
dell’avvio del processo costituente, l’analisi storica della costituzione di
Weimar, in virtù del suo carattere paradigmatico, può offrire, scrive Mortati,
un insegnamento cruciale: «[…]
che una democrazia moderna non può validamente poggiare sull’impalcatura
caratteristica dello Stato liberale dell’800, ma esige che l’assetto istituzionale democratico permei tutte le
strutture economiche e sociali, perché è dalla profonda ed intima
compenetrazione di queste nel proprio organismo che può trarre le vere ragioni
della sua solidità». La nuova Costituzione
deve poggiare su questo spazio di compenetrazione di unità politica e società, elementi non più
divisi come nell’Ottocento. La costituzione in senso materiale
divenne il concetto per definire la dimensione della legalità costituzionale
elaborata dall’ideologia delle forze politiche dominanti capaci di tradurre in
norma fondamentale i principi sociali di ordine. Esso determinava un assetto
politico-giuridIco che consentiva di “suturare” il rapporto tra Stato e
società. La nuova costituzione avrebbe dovuto essere «(…) la fase terminale, di
assestamento, di un processo di trasformazione del precedente sistema di
relazioni sociali, l’espressione di un riordinamento, su nuove basi, dei
rapporti fra le classi, in altre parole, lo stabilimentum di una
precedente decisione politica».
Le vicissitudini dello Stato di diritto, specie dopo gli orrori delle
dittature e della guerra, spinsero i nuovi Stati democratici a dar vita ad un
vero e proprio punto di svolta. La dignità della persona umana, l’uguaglianza,
la libertà divennero valori inalienabili posti dalla Costituzione,
ontologicamente anteriori allo Stato e al suo diritto. Il costituzionalismo del dopoguerra recupera l’antica “cultura”
del limite. Il principio di inviolabilità dei diritti fondamentali richiede l’innalzamento
di barriere più alte e più efficienti, a cominciare dall’introduzione delle
Corti costituzionali. Il Rule of law anglosassone – per un’ampia serie
di ragioni – aveva manifestato una forza “intrinseca” anche grazie al common law decision-making
e, in America, al judicial review of legislation. Nel
Continente europeo la visione classica dello Stato liberale di diritto era
radicata e non fu semplice accogliere il cambio di paradigma alla base dello
Stato democratico costituzionale.
Dopo le Costituzioni del secondo dopoguerra
(Francia, Italia, Germania, Giappone,
India…), si è affermato un nucleo di principi e valori costituzionali
come fattore conformativo e in questi ottant’anni si sono succedute varie
“ondate” basate, almeno sul piano formale, sulla filiera
democrazia/costituzione/Stato di diritto. Si è parlato, non a torto, di “costituzionalismo
globale”. L’eredità che il Novecento ci ha lasciato in tema di Stato di diritto
e di democrazia costituzionale – al di là delle tante possibili declinazioni –
consiste nello sforzo per trovare e preservare un equilibrio effettivo tra
democrazia e Stato di diritto, in particolare
tra la volontà del popolo e la macchina costituzionale/legale che pone limiti per proteggere e garantire la
dignità umana, i diritti fondamentali, il pluralismo e le minoranze.
L’espansione
globale tuttavia non è di per sé garanzia di effettivo radicamento della
costituzione democratica del Novecento. A parte gli Stati connotati da regimi
più o meno dichiaratamente autoritari, il mero transfer del
costituzionalismo “occidentale” non determina di per sé effetti decisivi. I
cataloghi dei diritti e delle libertà, o la presenza di Corti costituzionali,
tributo al mainstream, vanno visti in alcuni casi all’interno di quadri
culturali di riferimento che risignificano i valori e i principi del
costituzionalismo. Non a caso si è parlato di costituzionalismo di facciata,
nominale, per arrivare a fallimenti clamorosi che svelano il gap tra la
forza delle radici culturali autoctone e la debolezza di “modelli” imposti o
accolti per le più diverse finalità da élites locali.
Il quadro non è senza ombre neppure se restiamo nei confini dell’Unione
europea così toccata dalla lunga vicenda del Rule of law. Se è difficile
evocare lo spettro delle dittature del passato o l’avvento di nuovi
totalitarismi, le insidie non mancano: sono più sfumate e sottili ma non per
questo meno preoccupanti. Viktor Orban, premier ungherese, in un discorso del 2014 ha usato l’ossimoro democrazie
illiberali. Se la democrazia costituzionale ricerca e garantisce – nel
governo del conflitto – il punto di equilibrio tra la volontà del popolo (la
maggioranza) e i limiti posti dalla Costituzione e dai suoi congegni
istituzionali, le democrazie illiberali si sbilanciano dal lato della sovranità
popolare allorquando il principio maggioritario diventa la fonte di
legittimazione per erodere il secondo pilastro, lo Stato democratico soggetto
al Rule of law. Non a caso la democrazia maggioritaria e “illiberale” –
come per es. in Ungheria o in Polonia – tende a indebolire prima di tutto la
magistratura indipendente e le corti costituzionali, ma anche l’autonomia dei
media e la libertà di espressione, la parità di trattamento, le organizzazioni
della società civile e i governi locali, i diritti delle minoranze, dei richiedenti asilo e dei rifugiati. L’argomento principale
utilizzato dalla maggioranza politica è il primato della volontà popolare contro le istituzioni (non elette e
perciò “aristocratiche”) chiamate a preservare equilibri e meccanismi
di controllo, criticate, appunto, allorquando tentino di fare il loro mestiere
cioè impedire o limitare l’abuso del potere di governo.
La regressione dello Stato di diritto in uno
o più Stati membri minaccia anche le basi dell’ordinamento giuridico dell’Unione
europea. Dal 2018 la Corte di giustizia dell’Unione Europea ha iniziato a
sviluppare due nuovi filoni giurisprudenziali, da un lato dichiarando di essere
competente a pronunciarsi su questioni riguardanti l’indipendenza della
magistratura, dall’altro ha autorizzato i tribunali nazionali a svolgere un Rule-of-law
check dei tribunali di altri Stati membri valutando l’indipendenza e l’imparzialità
delle autorità giudiziarie che hanno emesso un mandato d’arresto europeo. Il 16
dicembre 2020 il Parlamento e il Consiglio
europeo hanno adottato un regolamento (2020/2092) relativo a un regime generale di
condizionalità per la protezione del bilancio dell’Unione. Si tratta di un
testo di grande rilevanza che intende puntellare la democrazia costituzionale e
lo Stato di diritto nello spazio europeo. Uno
degli effetti è la creazione di
un meccanismo che subordina la concessione di fondi europei ai singoli
Stati membri all’effettivo rispetto del principio dello Stato di diritto, di
cui si ricapitolano i caratteri fondamentali e le principali ipotesi di
violazione. La recente risoluzione del
Parlamento europeo (15 settembre 2022) – votata ad ampia maggioranza – vuole
influenzare la proposta di decisione del Consiglio in merito alla constatazione
(ex art. 7, § 1, Trattato sull’Unione europea) dell’esistenza di un
evidente rischio di violazione grave da parte dell’Ungheria dei valori –
accettati al momento dell’ingresso nell’Unione – su cui si fonda l’Europa. In
quella sede l’Ungheria è stata definita un «regime ibrido di autocrazia
elettorale». La Commissione Europea minaccia l’Ungheria di un consistente
taglio dei fondi europei ad essa destinati attivando quindi il
meccanismo introdotto nel 2020.
Queste vicende degli ultimi anni mostrano ancora una volta i pericoli insiti
nella strumentalizzazione dello Stato di diritto e della democrazia
costituzionale. La “reazione” europea, pur con i suoi tempi, testimonia la volontà di apprestare soluzioni
adeguate per difendere l’hard core del costituzionalismo democratico
del XX secolo che è passato attraverso dure prove.
Anche la pandemia da COVID-19 ha rappresentato una grossa sfida per gli
Stati di diritto e per l’Unione Europa. Infatti questo tipo di emergenza
radicalizza, enfatizza, in alcuni casi fa esplodere il rapporto tra diritto e
società, diritto e potere. Gli apocalittici hanno scomodato categorie come
dittatura e stato d’eccezione, ma l’emergenza costituzionale è una figura della
democrazia e non del suo contrario. Lo stato d’emergenza non può non essere uno
stato di stress per la Costituzione e per l’intero ordinamento
democratico. Innegabili sono alcuni problemi di fondo che vanno affrontati –
come è stato fatto – all’interno del quadro costituzionale, non senza problemi
e dubbi. Il cap. VI cerca di mostrare l’importanza di “storicizzare” a fondo i
quattro paradigmi che si ricollegano a diverse fasi della storia dello Stato
moderno e dei suoi assetti costituzionali: il primo evoca il concetto di straordinario
all’interno della parabola dello Stato giurisdizionale; il secondo la categoria
della necessità nel contesto dello Stato liberale di diritto; il terzo
richiama l’eccezione nell’esperienza della crisi dello Stato di diritto
e poi nella formazione dello Stato totalitario; il quarto mette al centro l’emergenza
nell’ordinamento costituzionale italiano vigente.
La Costituzione nel Novecento designa
dunque un lungo e difficile percorso per garantire un punto di equilibrio, di tensione
strutturale, tra la democrazia moderna e lo Stato di diritto. La nozione di
democrazia riguarda la legittimazione del potere politico, quella di Stato di
diritto i limiti procedurali e sostanziali all’esercizio del potere incidendo
anche, positivamente, sulla stessa formazione della volontà popolare. Le istanze
populistiche vogliono rompere questo rapporto costitutivo, richiamandosi
al mito ideologico della democrazia identitaria e “immediata” senza le
mediazioni rappresentative dello Stato di diritto che definisce i confini dello
Stato democratico. La tensione è il sale della relazione tra i due
termini ma non può diventare opposizione: il rischio fondato è quello di
imboccare la strada che conduce alla “democrazia illiberale”. La Costituzione
democratica – come si è visto negli ultimi anni in Europa – vive under the
Rule of law ma al centro resta sempre il problema del “governo degli
uomini”. Se vogliamo che la Costituzione democratica continui ad essere la
nostra “freccia del futuro”, non dobbiamo dimenticare che essa va costantemente
nutrita e difesa.
I sei capitoli che formano il volume sono in origine
usciti come saggi, pubblicati tra il 2019 e il 2022, su riviste e opere
collettanee. Ho apportato solo piccole integrazioni o modifiche formali.
Ringrazio vivamente i colleghi che hanno curato in origine la loro pubblicazione.