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21 April 2023

BOOK: Luigi LACCHÈ, La Costituzione del Novecento.Percorsi storici e vicissitudini dello Stato di diritto (Tironio: Giappichelli, 2023), 208 p. ISBN 97888892145887, € 18,05

 


Prof. Luigi Lacchè (Macerata) published La Costituzione del Novecento. Percorsi stori e vicissitudini dello Stato di diritto, on the Italian constitution in the 20th century and its historical trajectories

Table of Contents:

Indice

pag.

Premessa.

La Costituzione nel Novecento e lo Stato di diritto                           XI

I

Lo Statuto albertino e la Costituzione
repubblicana “a confronto”

1.     Premessa                                                                                                               1

2.     Due mondi lontani: origini, legittimazione e natura delle costi­tuzioni      3

3.     Due regimi di temporalità                                                                                  9

4.     Sovranità politica/supremazia normativa della Costituzione                    14

5.     Flessibilità vs. rigidità della Costituzione?                                                   17

6.     Legalità, costituzione, diritti                                                                           28

II

L’esperienza costituzionale di Weimar
nel dibattito italiano (1919-1948)

1.     Conoscere la Costituzione di Weimar (anni Venti)                                    36

2.     Il “fattore” Mortati (anni Trenta)                                                                   47

3.     La Costituzione di Weimar e il processo costituente (anni Quaranta) 60

pag.

III

Un groviglio costituzionale.
Fasi e problemi della costituzione “fascista”
nelle trasformazioni del regime

1.     1922-1924. Una rivoluzione, anzi no: una restaurazione costi­tuzionale 74

2.     1924-1925: audacia nel conservare e nell’innovare?                                  78

3.     1925-1926: Alfredo Rocco e la trasformazione dello Stato                      81

4.     1927-1929: Il Santo Sepolcro è vuoto. Il «dramma della diar­chia» e la costituzionalità fascista 86

5.     Gli anni Trenta                                                                                                  90

6.     Conclusioni: perché non c’è stata una costituzione fascista completa 95

IV

Agli albori dell’Europa libera e unita: per gli ottant’anni del Manifesto di Ventotene (1941-2021)

1.     Da prigionieri a costruttori di futuro                                                           103

2.     L’effetto Ventotene e l’officina delle idee                                                  104

3.     Il Manifesto e le cartine di sigaretta                                                            107

4.     Per un’Europa libera e unita: i temi-chiave del Manifesto                    109

5.     «Oggi è il momento in cui bisogna saper gettare via vecchi fardelli divenuti ingombranti, tenersi pronti al nuovo che so­praggiunge»                                                                                                 113

V

Le metamorfosi del Rule of law
nel Ventesimo secolo

1.     Storie e/del Rule of law                                                                                  117

2.     Rule of law nel Ventesimo secolo: un’eredità complessa e po­lisemica 119

3.     Una svolta: lo Stato di diritto nel corso degli anni Venti                        124

4.     Abusare del Rule of law                                                                                 128

5.     Il Rule of law dopo la seconda guerra mondiale: fase nuova, problemi vecchi?             134

pag.

VI

Le emergenze del diritto. Qualche riflessione storico-giuridica su quattro paradigmi (extraordinarium, necessità, stato di eccezione,
stato d’emergenza)

1.     Premessa: una “babele” linguistica e concettuale                                     143

2.     L’albero e il rampicante: ordo iuris /extraordinarium nelle espe­rienze di diritto comune 146

3.     La «polvere sotto il tappeto» e il pluralismo costituzionale: lo Stato liberale legale e la necessità            149

4.     Le situazioni e il caso d’eccezione (1919-1933)                                       161

5.     Stato di emergenza vs. stato di eccezione                                                  166

Indice dei nomi                                                                                                        175


 

 

Prof. Lacchè has been so kind as to share the introduction of his book with the readers of the ESCLH Blog. Please find the text below:

Premessa.

La Costituzione nel Novecento
e lo Stato di diritto

Costituzione e Novecento: un binomio indefettibile e al tempo stes­so problematico. Parliamo del lungo Novecento che giunge, a ben vedere, sino a noi e che è iniziato dalle parti della Prima Guerra Mondiale, tracciando poi le linee contorte di un secolo costellato da immani tragedie, sfide innumerevoli e grandi speranze. Sembra un secolo diviso a metà: nella prima parte troviamo vari tentativi di costruire nel con­tinente europeo un ordine costituzionale capace di organizzare, a seconda dei contesti, le nuove società di massa, eterogenee, pluralistiche e conflittuali, destinati, per buona parte, a soccombere di fronte al­l’avanzata dei regimi autoritari e totalitari. La seconda metà invece appare contraddistinta dall’affermazione progressiva del costituzionalismo democratico, accentuata dopo il crollo dei regimi post-sovietici. Queste però sono linee di tendenza e proprio negli anni del secolo XXI abbiamo visto indebolirsi la spinta ad ampliare i confini della democrazia costituzionale e dello Stato di diritto. Insomma, per più versi i caratteri storici del binomio Costituzione e Novecento non sono del tutto alle nostre spalle.

La democrazia costituzionale può essere vista come un grande albero con numerose e intricate radici, alcune lontane, altre più vicine. È come se la Costituzione nel Novecento contenesse e cercasse di ricomporre alcuni “pezzi” delle precedenti “generazioni” di testi e mo­menti costituzionali: ovvero la costituzione settecentesca del potere costituente (We the People, Nous la Nation) nata dalle grandi rotture rivoluzionarie, quando il popolo/nazione cominciò a rappresentarsi come unità politica consapevole di esistere e di avere una originaria capacità di agire; e poi la costituzione liberale del XIX secolo, in prevalenza monarchica, elitaria, che cercò invece di depotenziare la dimensione costituente attraverso un’idea di ordine politico-costitu­zionale storicamente determinato, sulla scia della costituzione-mito britannica.

Negli ultimi anni mi è capitato di riflettere su alcuni dei temi e dei problemi che hanno caratterizzato la vicenda novecentesca del costituzionalismo. I sei capitoli di questo volume – pur nati da occasioni diverse – sono uniti da un filo rosso e, in particolare, da due questioni strettamente collegate che hanno contrassegnato il Novecento: i muta­menti della forma e dei contenuti della costituzione, le vicissitudini dello Stato di diritto. Sono questioni che, muovendo dalla dimensione storica, arrivano sino a noi e ci aiutano a riflettere meglio sulla fase dif­ficile e, forse, “confusa” che stiamo vivendo.

Nel capitolo I si mettono “a confronto” – cioè si “misurano” su alcune questioni fondamentali – l’esperienza italiana del costituzionalismo liberale e dello Statuto fondamentale (concesso nel 1848 da Carlo Alberto ai sudditi del Regno di Sardegna) e la Costituzione repubblicana entrata in vigore un secolo dopo. Da un lato c’è la tradizionale declinazione liberale della costituzione-tempo, fatta di esperienza, prassi, lento adattamento. La costituzione si costruisce nello scandaglio della storicità, si rispecchia, nel suo progredire, in forme, equilibri e modi di essere della società e delle sue principali articolazioni. Prima viene l’ordine costituzionale dato, la Verfassung direbbero i tedeschi, poi la costituzione scritta (Konstitution) che ne è una parte, importante, ma insufficiente da sola a rispecchiare la dimensione materiale dell’assetto sociale (basti pensare alla costituzione economica del codice civile). Dall’altro lato, la rivoluzione costituzionale del 1948 – esempio mirabile di Costituzione democratica del secondo Novecento – pensa il tempo in termini di “futuro” e non più di passato, storicità, tradizione. Nel capitolo I le “misure” per esaminare sinotticamente i due grandi blocchi della storia costituzionale italiana sono le coppie sovranità politica/supremazia normativa della Costituzione; flessibilità/rigidità della Costituzione; diritti/libertà; legalità/costituzionalità. Tutti temi cruciali. Ma la Costituzione del Novecento è forte se contie­ne e veicola un programma, un indirizzo, se è volontà di futuro capace di indirizzare la società nata dalle ceneri della dittatura e di ciò che restava dello Stato liberale. La novità della Costituzione italiana sta proprio in ciò che i liberali “ottocenteschi” (ma anche una parte dei costituenti democratici) stentavano a comprendere: la sua «eccedenza progettuale». Essa immagina una società che sta oltre le condizioni reali del presente. La costituzione democratica è quindi «una freccia del futuro». Essa nasce dalla società costituente e dal conflitto “naturale” tra soggetti concreti e sempre più “compositi” (lavoratori, consumatori, imprenditori, ecc.) e appresta principii, regole e meccanismi istituzionali che dovrebbero consentire alla società stessa di progredire.

Negli anni che precedettero e seguirono la prima guerra mondiale sembrò possibile avviare questa trasformazione. Nel capitolo II si parte dal problema europeo della “crisi dello Stato liberale”. La «stupenda creazione del diritto», lo Stato nazionale creato nel XIX secolo, mostrava già ad un osservatore attento come Santi Romano (Lo Stato moderno e la sua crisi, 1909) le crepe di un edificio costruito per governare un universo più “semplice”, da un lato lo Stato moderno, sovrano, e dall’altro gli individui-atomi. Una “forma di Stato” chiamata ora a misurarsi con le sfide del collettivo: economia industriale, avanzata della tecnica, associazionismo e sindacalismo.

La guerra mondiale funzionò quindi da straordinario catalizzatore e accelerò il manifestarsi di fenomeni già visibili. Gli Stati liberali avevano vinto la guerra, ma per vincere la pace dovevano essere in grado di riformare in profondità la loro costituzione. Il dilemma era: uscire dalla guerra dal lato delle libertà e della partecipazione o da quello dell’autoritarismo? Se in Italia il neonato “Stato dei partiti” identificò nel complesso delle riforme elettorali e parlamentari del 1919-1920 il presupposto per creare una democrazia di massa fondata sul pluralismo politico, in Germania la Costituzione di Weimar offrì, proprio dal 1919, un primo disegno di indubbia innovazione costituzionale. Weimar – fenomeno per taluni aspetti radicalmente tedesco – divenne così uno “specchio” per gran parte dell’Europa.

Prima di diventare l’esempio paradigmatico del fallimento dello Stato nuovo, “sociocentrico” e ad indirizzo labouristico, la Costituzione weimariana sembrò ad un liberale come Francesco Ruffini una pri­ma concreta risposta ai pericoli di “sovietizzazione”. Ancora nel 1925 «Il fondamento della Costituzione repubblicana dell’Impero tedesco è risultato invero quello di uno Stato democratico, e cioè costituzionale e parlamentare: – vale a dire, di un vero Stato liberale». Basta leggere l’art. 151 della costituzione tedesca del 1919 per comprendere la novità del linguaggio: «L’ordinamento della vita economica deve corrispondere alle norme fondamentali della giustizia e tendere a garantire a tutti un’esistenza degna dell’uomo». È la costituzione social-demo­cratica a determinare le nuove condizioni di unità politica attraverso la logica del compromesso e del governo del conflitto. Proprio ciò che, nel fallimento, verrà additato come il fattore di delegittimazione di una costituzione considerata “debole”, fonte di instabilità e di contraddizioni.

A prescindere dall’esito, come detto, la costituzione weimariana di­venne un punto di riferimento per diversi Stati nati o restaurati dopo la guerra, l’emblema stesso della costituzione sociale che cercava di dare “forma” alla più importante “rivoluzione” costituzionale del primo Novecento. James Bryce (Modern Democracies, 1921) – dopo la vittoria della “democrazia” sui regimi autocratici e l’entrata in vigore di alcune nuove costituzioni liberal-democratiche – poteva ancora nutrire delle speranze circa le potenzialità del regime democratico, del libero governo e dello stato di diritto. «Vediamo popolazioni arretrate, a cui era sconosciuta la concezione stessa della libertà politica, chiamate a tentare il tremendo compito di creare istituzioni di autogoverno. Cina, India e Russia, nel loro insieme, contengono metà o più della popolazione del globo, quindi il problema di fornire loro un governo libero è il più grande problema che l’arte di Stato abbia mai dovuto risolvere». Lord Bryce notava, ma non senza inquietudini, che «[…] il numero delle democrazie è raddoppiato nel mondo nello spazio di quindici anni». Guardare in direzione di Weimar significò confrontarsi con quella complessa costellazione di temi e di questioni che hanno dato vita al primo significativo e controverso laboratorio del costituzionalismo de­mocratico del Novecento, nel contesto della guerra, del crollo dell’Im­pero guglielmino e della crisi generale dello Stato monoclasse.

Se lo Stato costituzionale di Weimar poteva essere visto come un Upgrade dello Stato liberal-democratico in via di trasformazione, la nozione di “Stato di diritto” – come si può vedere nel cap. V – non può dirsi univoca. Il Rule of law di Dicey e della tradizione britannica non è un mero sinonimo del Rechtsstaat tedesco o, ancora, de l’Etat légal francese o dello Stato di diritto dei liberali italiani. Ovviamente, ci sono matrici e principi comuni ma la contestualizzazione può aiutare a comprendere meglio il valore e il significato storico di queste varie declinazioni. Per Dicey il Rule of law è uno dei pilastri della costituzione britannica le cui disposizioni «non sono la fonte ma la conseguenza dei diritti delle persone, così come definiti e fatti valere dai tri­bunali […] quindi la costituzione è il risultato della legge ordinaria del paese». Sul Continente è l’idea della centralità e della supremazia della legge dello Stato – quale ne sia il fondamento – a restare salda. Da un lato la cultura del common law decision-making, governato dai giudici che divennero, nel contesto americano, guardiani della costituzione scritta, grazie dapprima all’“invenzione” e poi allo sviluppo del sistema di controllo giurisdizionale del legislativo. Dall’altro la cultura statocentrica, limitata e sorretta dalla legge, dove la tutela dei diritti e delle libertà individuali era garantita principalmente dall’apparato interno del potere legislativo e dello Stato amministrativo. Le teorie (fra tutte quella di Kelsen) e l’esperienza dell’Alta Corte costituzionale austriaca cercarono di dare soluzione al problema più antico dello Stato moderno continentale, ovvero la «posizione» del potere giudiziario al­l’interno dell’organizzazione statale.

Il cammino della costituzione democratica e dello Stato di diritto sembrò interrompersi in una parte rilevante dell’Europa continentale proprio negli anni di iniziale apertura ai nuovi concetti del costituzionalismo. Questo processo fu còlto all’inizio del guado. Il caso italiano è emblematico. Il cap. III analizza il problema del passaggio dallo Stato liberale allo Stato fascista. La ricerca della costituzione fascista non può arrestarsi al livello della contraddizione in termini, se non dell’os­simoro. In realtà, il ventennale e affannoso dibattito sul problema costituzionale del fascismo generò fasi “costituenti” e un groviglio che denuncia “confusione” ma anche l’intrecciarsi di questioni e temi tipici del Novecento e non confinabili solo all’interno delle dinamiche specifiche del regime. In realtà la costituzionalizzazione autoritaria ha provato ad offrire, senza un vero progetto iniziale e restando schiacciata dalle sue contraddizioni, “risposte” ad almeno tre fenomeni centrali e concomitanti del Novecento: la “crisi” della costituzione liberale segnata, prima, durante e dopo la guerra mondiale, dall’avanzata delle masse e da tumultuosi processi di democratizzazione; il rapporto tra il regime politico-costituzionale e i nuovi fini sociali e collettivi dello Stato legati al lavoro e alla produzione; la “disgregazione” dell’autori­tà statuale da difendere e “modernizzare” proprio attraverso la edificazione di una costituzione autoritaria. In questo senso la costituzione fascista è al tempo stesso il processo di costruzione di un edificio unico per struttura e forme e, alla fine, un tentativo fallito di concepire, nello spazio autoritario, un altro modo di organizzare i rapporti tra potere, masse e società.

Le vicissitudini dello Stato di diritto tra le due guerre misero dunque a nudo i limiti intrinseci della «stupenda creazione del diritto» dei giuristi liberali. I regimi totalitari riuscirono abilmente a sfruttarne i suoi “lati oscuri” ma anche lo stesso principio formale, legittimante, di legalità. I dibattiti sullo Stato giuridico nell’Italia fascista e sul Rechtsstaat nella Germania prenazista e nazista mostrano strategie diverse nell’abusare dell’ambiguità semantica e retorica di quei concetti. Entrambi i riferimenti hanno svolto funzioni diverse nell’affrontare l’eredità del nucleo comune dello Stato di diritto: separazione tra Stato e società, individualismo, parlamentarismo, tutela dei diritti, divisione dei poteri. Per Carl Schmitt lo Stato di diritto ottocentesco non era più in grado di ricondurre a unità politica il pluralismo conflittuale dello Stato legislativo (la Repubblica di Weimar ne era, infine, il paradigma negativo) ed era quindi necessario fondare lo Stato “totale” (der Totale Staat). Il Rechtsstaat appariva un concetto politico obsoleto, archiviato come qualcosa del passato. Per Schmitt tutti i concetti politici, con un significato polemico, erano legati a una situazione concreta: Rechtsstaat all’inizio degli anni Trenta aveva ben poco di nobile, una sorta di generico passepartout evocato per diffamare i suoi presunti “nemici”.

Negli anni Trenta, mentre Schmitt affermava lapidario, dalla prospettiva politico-sostanziale, che «La Costituzione di Weimar non è più in vigore», Costantino Mortati rifletteva, come nessun altro in Italia, sulla dottrina costituzionale weimariana (cap. II). Ciò voleva dire leggere le questioni contingenti legate al regime fascista alla luce dei grandi temi legati al nuovo Stato pluriclasse, alla crisi dei regimi liberal-democratici di massa e alle questioni metodologiche e al lessico concettuale del nuovo diritto pubblico in formazione. Weimar come fenomeno della crisi o dissoluzione di un ordine basato sulla transizione dualistica della forma di governo, ma, soprattutto, come “nuova forma del mondo”, comprensibile – come fece Mortati – nei termini di una rinnovata teoria della costituzione. Nel fallimento di Weimar c’è una parte di passato ma anche una porzione non trascurabile di futuro. Weimar si può leggere enfatizzando “ciò che resta” del Reich e della sua struttura monarchico-costituzionale o, invece, valorizzando la dimensione avanguardistica, una sorta di Bauhaus del costituzionalismo novecentesco. Alcune delle critiche mosse alla costituzione di Weimar – in particolare sui caratteri genetici: eterogeneità dei soggetti politici “portatori” e necessario “compromesso” costituente – coglievano gli aspetti problematici ma non il fatto che ciò annunciava il nuovo costituzionalismo del Novecento ancorato al problema delle masse, al ruolo dei partiti, all’inevitabile pluralità/conflitto di principi, valori e interessi “frazionali” e alla necessità di raggiungere mediazioni e “compromessi” politico-costituzionali.

Nel corso degli anni Trenta si cominciò a volgere lo sguardo verso nuovI ambiti di riflessione – legati in maniera intricata alle trasformazioni mondiali del dopoguerra e alle trasformazioni place specific dettate dal fascismo – cominciando a definire i contorni del governo d’in­dirizzo e di partito. Il metodo giuridico venne integrato da prospettive realistiche, di ascendenza storico-filosofica e sociologica, ridefinendo il rapporto/confine fra diritto e politica. Nella visione di questa nouvelle vague – che giocherà un ruolo assai importante nel successivo processo costituente – si cominciò a ripensare le categorie del diritto pubblico in grado di leggere in maniera più articolata il problema della crisi dello “Stato moderno” e soprattutto del rapporto tra società e costituzione.

Come si può cogliere dal cap. IV, questa stessa attitudine fu centrale presso gruppi di intellettuali impegnati nella resistenza al fascismo e spesso segnati dall’esilio, dal carcere e dal confino. Alla ricerca di nuove vie, non avevano certezze granitiche ma erano sicuri del fatto che non sarebbero stati i concetti politici (e giuridici) della tradizione a poter fronteggiare da soli le immense sfide che si stavano profilando sul piano nazionale ed europeo. «Nel tetro inverno 1940-41, – racconta Altiero Spinelli nelle sue memorie – quando quasi tutta l’Europa continentale era stata soggiogata da Hitler, l’Italia di Mussolini ansimava al suo seguito, l’URSS stava digerendo il bottino che era riuscita ad afferrare, gli Stati Uniti erano ancora neutrali e l’Inghilterra sola resisteva, trasfigurandosi agli occhi di tutti i democratici d’Europa in loro patria ideale, proposi ad Ernesto Rossi di scrivere insieme un “manifesto per un’Europa libera e unita”, e di immetterlo nei canali della clandestinità antifascista sul continente».

Al fondo della riflessione che portò al cd. Manifesto di Ventotene – il cui titolo originale era Per un’Europa libera e unita. Progetto d’un manifesto – c’è lo stesso tema che assillava i giuristi: lo Stato moderno, nazionale, di diritto e la sua crisi. Per Spinelli, Rossi e il gruppo dei federalisti italiani erano stati i «Leviatani impazziti» a trascinare di nuovo le nazioni europee in una guerra ancor più catastrofica. Nel primo capitolo del Manifesto La crisi della civiltà moderna – si analizza il processo degenerativo dello Stato nazionale: da soggetto affrancatore (garante di libertà, unità, indipendenza, civiltà) a «entità divina» portatrice di una concezione assoluta della sovranità foriera di volontà di dominio, di spazi vitali, di egemonia del più forte. Ma non era neppure sufficiente tornare ad essere “democratici”. Solo grazie al processo federativo di un’Europa rinnovata si sarebbe potuto costruire una nuova visione dell’unità politica e costituzionale.

Ormai a ridosso dell’avvio del processo costituente, l’analisi storica della costituzione di Weimar, in virtù del suo carattere paradigmatico, può offrire, scrive Mortati, un insegnamento cruciale: «[…] che una democrazia moderna non può validamente poggiare sull’impalca­tura caratteristica dello Stato liberale dell’800, ma esige che l’assetto istituzionale democratico permei tutte le strutture economiche e sociali, perché è dalla profonda ed intima compenetrazione di queste nel proprio organismo che può trarre le vere ragioni della sua solidità». La nuova Costituzione deve poggiare su questo spazio di compenetrazione di unità politica e società, elementi non più divisi come nell’Ottocento. La costituzione in senso materiale divenne il concetto per definire la dimensione della legalità costituzionale elaborata dall’ideologia delle forze politiche dominanti capaci di tradurre in norma fondamentale i principi sociali di ordine. Esso determinava un assetto politico-giuri­dIco che consentiva di “suturare” il rapporto tra Stato e società. La nuova costituzione avrebbe dovuto essere «(…) la fase terminale, di assestamento, di un processo di trasformazione del precedente sistema di relazioni sociali, l’espressione di un riordinamento, su nuove basi, dei rapporti fra le classi, in altre parole, lo stabilimentum di una precedente decisione politica».

Le vicissitudini dello Stato di diritto, specie dopo gli orrori delle dittature e della guerra, spinsero i nuovi Stati democratici a dar vita ad un vero e proprio punto di svolta. La dignità della persona umana, l’u­guaglianza, la libertà divennero valori inalienabili posti dalla Costituzione, ontologicamente anteriori allo Stato e al suo diritto. Il costituzionalismo del dopoguerra recupera l’antica “cultura” del limite. Il principio di inviolabilità dei diritti fondamentali richiede l’innalza­mento di barriere più alte e più efficienti, a cominciare dall’introduzio­ne delle Corti costituzionali. Il Rule of law anglosassone – per un’am­pia serie di ragioni – aveva manifestato una forza “intrinseca” anche grazie al common law decision-making e, in America, al judicial review of legislation. Nel Continente europeo la visione classica dello Stato liberale di diritto era radicata e non fu semplice accogliere il cambio di paradigma alla base dello Stato democratico costituzionale.

Dopo le Costituzioni del secondo dopoguerra (Francia, Italia, Germania, Giappone, India…), si è affermato un nucleo di principi e valori costituzionali come fattore conformativo e in questi ottant’anni si sono succedute varie “ondate” basate, almeno sul piano formale, sulla filiera democrazia/costituzione/Stato di diritto. Si è parlato, non a torto, di “costituzionalismo globale”. L’eredità che il Novecento ci ha lasciato in tema di Stato di diritto e di democrazia costituzionale – al di là delle tante possibili declinazioni – consiste nello sforzo per trovare e preservare un equilibrio effettivo tra democrazia e Stato di diritto, in particolare tra la volontà del popolo e la macchina costituzionale/legale che pone limiti per proteggere e garantire la dignità umana, i diritti fondamentali, il pluralismo e le minoranze.

L’espansione globale tuttavia non è di per sé garanzia di effettivo radicamento della costituzione democratica del Novecento. A parte gli Stati connotati da regimi più o meno dichiaratamente autoritari, il mero transfer del costituzionalismo “occidentale” non determina di per sé effetti decisivi. I cataloghi dei diritti e delle libertà, o la presenza di Corti costituzionali, tributo al mainstream, vanno visti in alcuni casi all’interno di quadri culturali di riferimento che risignificano i valori e i principi del costituzionalismo. Non a caso si è parlato di costituzionalismo di facciata, nominale, per arrivare a fallimenti clamorosi che svelano il gap tra la forza delle radici culturali autoctone e la debolezza di “modelli” imposti o accolti per le più diverse finalità da élites locali.

Il quadro non è senza ombre neppure se restiamo nei confini del­l’Unione europea così toccata dalla lunga vicenda del Rule of law. Se è difficile evocare lo spettro delle dittature del passato o l’avvento di nuovi totalitarismi, le insidie non mancano: sono più sfumate e sottili ma non per questo meno preoccupanti. Viktor Orban, premier ungherese, in un discorso del 2014 ha usato l’ossimoro democrazie illiberali. Se la democrazia costituzionale ricerca e garantisce – nel governo del conflitto – il punto di equilibrio tra la volontà del popolo (la maggioranza) e i limiti posti dalla Costituzione e dai suoi congegni istituzionali, le democrazie illiberali si sbilanciano dal lato della sovranità popolare allorquando il principio maggioritario diventa la fonte di legittimazione per erodere il secondo pilastro, lo Stato democratico soggetto al Rule of law. Non a caso la democrazia maggioritaria e “illiberale” – come per es. in Ungheria o in Polonia – tende a indebolire prima di tutto la magistratura indipendente e le corti costituzionali, ma anche l’autonomia dei media e la libertà di espressione, la parità di trattamento, le organizzazioni della società civile e i governi locali, i diritti delle minoranze, dei richiedenti asilo e dei rifugiati. L’argomento prin­cipale utilizzato dalla maggioranza politica è il primato della volontà popolare contro le istituzioni (non elette e perciò “aristocratiche”) chia­mate a preservare equilibri e meccanismi di controllo, criticate, appunto, allorquando tentino di fare il loro mestiere cioè impedire o limitare l’abuso del potere di governo.

La regressione dello Stato di diritto in uno o più Stati membri minaccia anche le basi dell’ordinamento giuridico dell’Unione europea. Dal 2018 la Corte di giustizia dell’Unione Europea ha iniziato a sviluppare due nuovi filoni giurisprudenziali, da un lato dichiarando di essere competente a pronunciarsi su questioni riguardanti l’indipen­denza della magistratura, dall’altro ha autorizzato i tribunali nazionali a svolgere un Rule-of-law check dei tribunali di altri Stati membri valutando l’indipendenza e l’imparzialità delle autorità giudiziarie che hanno emesso un mandato d’arresto europeo. Il 16 dicembre 2020 il Parlamento e il Consiglio europeo hanno adottato un regolamento (2020/2092) relativo a un regime generale di condizionalità per la protezione del bilancio dell’Unione. Si tratta di un testo di grande rilevanza che intende puntellare la democrazia costituzionale e lo Stato di diritto nello spazio europeo. Uno degli effetti è la creazione di un meccanismo che subordina la concessione di fondi europei ai singoli Stati membri all’effettivo rispetto del principio dello Stato di diritto, di cui si ricapitolano i caratteri fondamentali e le principali ipotesi di violazione. La recente risoluzione del Parlamento europeo (15 settembre 2022) – votata ad ampia maggioranza – vuole influenzare la proposta di decisione del Consiglio in merito alla constatazione (ex art. 7, § 1, Trattato sull’Unione europea) dell’esistenza di un evidente rischio di violazione grave da parte dell’Ungheria dei valori – accettati al momento dell’ingresso nell’Unione – su cui si fonda l’Europa. In quella sede l’Ungheria è stata definita un «regime ibrido di autocrazia elettorale». La Commissione Europea minaccia l’Ungheria di un consistente taglio dei fondi europei ad essa destinati attivando quindi il meccanismo introdotto nel 2020.

Queste vicende degli ultimi anni mostrano ancora una volta i pericoli insiti nella strumentalizzazione dello Stato di diritto e della democrazia costituzionale. La “reazione” europea, pur con i suoi tempi, testimonia la volontà di apprestare soluzioni adeguate per difendere l’hard core del costituzionalismo democratico del XX secolo che è passato attraverso dure prove.

Anche la pandemia da COVID-19 ha rappresentato una grossa sfida per gli Stati di diritto e per l’Unione Europa. Infatti questo tipo di emergenza radicalizza, enfatizza, in alcuni casi fa esplodere il rapporto tra diritto e società, diritto e potere. Gli apocalittici hanno scomodato categorie come dittatura e stato d’eccezione, ma l’emergenza costituzionale è una figura della democrazia e non del suo contrario. Lo stato d’emergenza non può non essere uno stato di stress per la Costituzione e per l’intero ordinamento democratico. Innegabili sono alcuni problemi di fondo che vanno affrontati – come è stato fatto – all’interno del quadro costituzionale, non senza problemi e dubbi. Il cap. VI cerca di mostrare l’importanza di “storicizzare” a fondo i quattro paradigmi che si ricollegano a diverse fasi della storia dello Stato moderno e dei suoi assetti costituzionali: il primo evoca il concetto di straordinario all’interno della parabola dello Stato giurisdizionale; il secondo la categoria della necessità nel contesto dello Stato liberale di diritto; il terzo richiama l’eccezione nell’esperienza della crisi dello Stato di diritto e poi nella formazione dello Stato totalitario; il quarto mette al centro l’emergenza nell’ordinamento costituzionale italiano vigente.

La Costituzione nel Novecento designa dunque un lungo e difficile percorso per garantire un punto di equilibrio, di tensione strutturale, tra la democrazia moderna e lo Stato di diritto. La nozione di democrazia riguarda la legittimazione del potere politico, quella di Stato di diritto i limiti procedurali e sostanziali all’esercizio del potere incidendo anche, positivamente, sulla stessa formazione della volontà popolare. Le istan­ze populistiche vogliono rompere questo rapporto costitutivo, richiamandosi al mito ideologico della democrazia identitaria e “immediata” senza le mediazioni rappresentative dello Stato di diritto che definisce i confini dello Stato democratico. La tensione è il sale della relazione tra i due termini ma non può diventare opposizione: il rischio fondato è quello di imboccare la strada che conduce alla “democrazia illiberale”. La Costituzione democratica – come si è visto negli ultimi anni in Europa – vive under the Rule of law ma al centro resta sempre il problema del “governo degli uomini”. Se vogliamo che la Costituzione democratica continui ad essere la nostra “freccia del futuro”, non dobbiamo dimenticare che essa va costantemente nutrita e difesa.

I sei capitoli che formano il volume sono in origine usciti come saggi, pubblicati tra il 2019 e il 2022, su riviste e opere collettanee. Ho apportato solo piccole integrazioni o modifiche formali. Ringrazio vivamente i colleghi che hanno curato in origine la loro pubblicazione.

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